I vincoli di finanza pubblica, a livello statale e locale, accentuati dalla crisi economico-finanziaria degli ultimi anni hanno evidenziato la difficile sostenibilità dell’attuale sistema di welfare. Un sistema, come quello attuale, che si limita a raccogliere e redistribuire le risorse fiscali e contributive è inevitabilmente destinato a collassare. La sola alternativa al decadimento del sistema di protezione sociale è un radicale ripensamento del suo funzionamento, per renderlo capace di rigenerare le risorse trasferite e massimizzarne il rendimento sociale, responsabilizzando i fruitori delle prestazioni. Di questo si è discusso nel corso dell’incontro di studio sul tema “Verso un welfare generativo, da costo a investimento”, organizzato dalla Fondazione Emanuela Zancan (Padova, 5 aprile). All’incontro ha partecipato un gruppo esperti nelle tematiche di economia pubblica e valutazione delle politiche sociali: Stella Alberti, Giovanni Costa, Cesare Dosi, Luciano Greco, Benedetto Gui, Gilberto Muraro, Enrico Rettore, Dino Rizzi, Mino Spreafico, Francesca Zantomio, e ricercatori della Fondazione Zancan con il direttore Tiziano Vecchiato.
La discussione ha avuto come punto di partenza l’analisi delle diverse criticità. Le risorse totali destinate all’assistenza sociale – aumentate da circa 47 miliardi del 2007 a quasi 51 miliardi nel 2011 – sono concentrate sull’erogazione di trasferimenti (in rapporto quantitativo di 9 a 1 rispetto alla fornitura di servizi). Si tratta di un sistema con forti disparità territoriali: la spesa sociale pro capite dei comuni nel 2009 variava da 25,54 euro in Calabria a 294,71 euro nella Provincia Autonoma di Trento; la spesa comunale pro capite a contrasto della povertà variava ancor più, da 1,77 euro in Calabria a 30,64 euro in Sardegna. Il sistema attuale è gestito a “costo amministrato” piuttosto che a “investimento”, secondo modalità burocratiche che antepongono il diritto a ricevere senza il dovere per l’aiutato di restituire (generare) valore sociale a fronte delle prestazioni ricevute. Non può dunque stupire che, ad esempio, nel solo Comune di Milano si contino 65 erogazioni economiche, provenienti da tre diversi livelli amministrativi (comune, regione, stato), con sovrapposizioni per area di bisogno, e soglie di accesso troppo variabili tra i diversi interventi.
L’incontro ha messo in luce le condizioni per un cambio di paradigma: trasformare l’attuale sistema di “diritti individuali” in un sistema basato su “diritti sociali”, che permetta di rigenerare le risorse economiche e umane coinvolte, responsabilizzando molto di più i beneficiari. Si tratta di passare da una logica di costo ad una di investimento capace di rendimento sociale. Come? Condizionando le prestazioni sociali ad un “corrispettivo” da parte degli aiutati. La forma più semplice è quella di attività lavorative generatrici di valore sociale. Finora questa strada è stata raramente percorsa, ad esempio con il servizio civile o con lavori socialmente utili. Si tratta di approfondire, perfezionare soluzioni (eliminando le distorsioni) e di allargarne il campo di applicazione alla generalità dei beneficiari di trasferimenti monetari e di ammortizzatori sociali.
In questo modo si innescherebbe un circolo virtuoso per moltiplicare il valore, anche economico, delle risorse investite. Il loro rendimento servirebbe per creare nuova occupazione e incrementare il capitale sociale, restituendo dignità e responsabilità agli aiutati.
Il dibattito ha evidenziato che la trasformazione del valore economico dei trasferimenti in servizi forniti alla collettività consentirebbe non solo la creazione di nuova occupazione di welfare ma anche di aprire nuovi spazi al mercato del lavoro, a vantaggio della occupazione femminile (sottorappresentata nei dati occupazionali complessivi ma con buone potenzialità nei servizi di welfare). Ad esempio nel settore sanitario l’Italia conta 20 occupati ogni 1.000 residenti, contro 30-40 occupati ogni 1.000 residenti nei Paesi del centro-nord Europa.
L’espansione del settore dei servizi alle persone comporterebbe un incremento del capitale sociale e un impatto redistributivo da destinare alle fasce più disagiate della popolazione.
Nei Paesi Ocse si osserva una correlazione positiva tra spesa per servizi e riduzione delle disuguaglianze: tra il 2000 e il 2007 in Italia si è ridotta più che in altri Paesi la quota della spesa per servizi sul reddito personale disponibile (-8,8%). La conseguenza è che si è anche ridotta la capacità di ridurre le disuguaglianze (-5,7%). Meccanismi virtuosi di tipo generativo permetterebbero invece di coinvolgere e attivare molte energie latenti nel tessuto sociale. I vantaggi sarebbero non solo per il settore pubblico ma anche per altri centri di responsabilità e corpi intermedi della società (associazioni, cooperative, microcredito, fondazioni …). A vincere non sarebbe soltanto la solidarietà e la sussidiarietà ma l’intera società.
La sfida è dunque molto alta: superare un assetto di welfare puramente amministrato e redistributivo, per approdare ad un nuovo schema capace di generare valore e rendimento “economico e sociale”. La nostra Costituzione aveva prefigurato questa sfida. Oggi i tempi sono maturi per affrontarla con strategie più adeguate, in un momento di crisi, per non limitarsi a dare a chi ha bisogno, ma per dare aiutando in modo efficace.